Pecore islandesi, polpi e crisi climatica
Le ultime notizie dal fronte allevamenti intensivi
Nella newsletter di oggi non ho trattato un singolo tema, ma mi sono fatto trasportare dalle esperienze che ho vissuto e dalle notizie che ho letto. Nello scrivere mi sono accorto, però, che il primo e l’ultimo argomento potrebbero essere collegati.
Qui non ho ancora parlato del fatto che sono diventato il protagonista di un fumetto. Nel numero 4 de La Revue Dessinée, una rivista di carta che pubblica inchieste e reportage interamente a fumetti, c’è una lunga storia disegnata, dove a partire dal lavoro d’indagine di Essere Animali descrive le problematiche della produzione di carne. La rivista si trova in edicola o ci si abbona qui.
Animal farm News è divisa in tre parti, oltre a un articolo inedito ci sono due rubriche: Contenuti interessanti e Immagini che mi hanno colpito.
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Martedì sono tornato da sette giorni in Islanda, che dire… magnifica. Nonostante infiniti deserti di lava, brughiere innevate, gargantuesche cascate che ti fanno sentire piccolo piccolo, mega geyser – un po’ inflazionati anche a marzo – e paesaggi mozzafiato che cambiano ogni 5 chilometri. In Islanda non ci sono boschi, ma in compenso ho visto tanti allevamenti di cavalli.
Come scrive Claudio Giunta in Tutta la solitudine che meritate (Quodlibet Humboldt 2014): “del deserto attuale non hanno colpa né il freddo né il vento. Popolo di allevatori, i norvegesi che sbarcarono sull’isola cominciarono ad abbattere gli alberi per avere pascolo per le pecore”.
Di pecore, nei 2.000 km percorsi, ne ho viste sì e no 40, malgrado se ne allevino più di 400 mila in tutta l’Islanda. D’inverno le stallano e le alimentano con insilati, proprio come si fa con le nostre mucche da latte. D’estate invece, quando si sghiacciano i pascoli, vivono in paradiso. In Islanda esiste una sola razza di pecora, unica al mondo, portata sull’isola ben 1.000 anni fa dai Vichinghi.
Delle Icelandic sheep non si butta via niente: con la lana ci fanno quei maglioncini fighissimi che ti scaldano otto volte più del pile; latte e formaggio dalla mungitura, (fino a qualche decennio fa questo era il principale motivo per cui le allevavano); carne d’agnello che viene macellato in autunno ed è la tipologia di carne più presente nei supermercati. Oggi la carne rappresenta l’80% dei ricavi derivanti dall’allevamento ovino. Ah, con i corni ci fanno invece degli snack per i cani.
Non volevo dilungarmi sulle pecore, torniamo a parlare dei cavalli. Come un po’ tutto quello che vedi in Islanda, anche i cavalli sono una “cosa” eccezionale, sono poco più grandi di un pony e hanno tanto pelo, soprattutto sulle gambe.
Inutile dire che anche e loro sono stati portati dai Vichinghi norvegesi. Da Wikipedia leggo che in islandese esistono più di cento modi per descrivere le diverse colorazioni del manto – proprio come per la neve – e questo mi porta a pensare a quanto considerino importante questo animale. In Islanda è presente una sola razza di cavalli, ma a differenza delle pecore gli equini islandesi si allevano anche in altre parti del mondo, a una condizione però: una volta fuori dai confini dell’isola non possono più tornare. Questo per una questione di conservazione della razza, dato che i cavalli islandesi non sono immunizzati a nessuna malattia, un focolaio potrebbe sterminarli.
Sono 80.000 i cavalli che vivono sull’isola, a fronte di una popolazione di 370 mila persone, e molti di loro vengono ancora usati per lavori agricoli, altri invece corrono in gare ippiche o vengono cavalcati dai turisti, e altri ancora diventano hrossakjöt (carne di cavallo). Ho visto carne di cavallo solo nei grossi supermercati, gli islandesi non ne sono grandi consumatori e ho letto qui che circa la metà della produzione viene esportata in Giappone e Svizzera.
In Italia, a prescindere dall’utilizzo (ippica, maneggi, allevamenti…), sono presenti 391 mila cavalli e nel 2022 per il consumo alimentare se ne sono macellati 22 mila, il 40% circa proveniva dall'estero, soprattutto da Francia e Polonia. Negli ultimi 5 anni il numero di cavalli macellati in Italia è rimasto pressoché invariato.
Stop con gli allevamenti estensivi. Ecco le principali notizie dal fronte degli allevamenti intensivi uscite negli ultimi giorni.
Polpi
Eurogroup for Animals ha diffuso “Uncovering the horrific reality of octopus farming” un report che si basa su un documento riservato di cui è entrato in possesso. Il documento redatto, dalla multinazionale Nueva Pescanova, fa parte della documentazione inviata alla Direzione Generale della Pesca delle Isole Canarie, per richiedere il permesso di costruire, nell’isola di Las Palmas, il primo allevamento intensivo di polpi al mondo. Si tratterebbe di una struttura dove verranno prodotte 3.000 tonnellate di polpi all’anno, per un totale di un milione di animali allevati. Dal documento si scopre che:
La densità di allevamento sarà di 10-15 polpi a m3;
Il tasso di mortalità stimata è del 20% per ogni ciclo di allevamento;
Gli animali saranno rinchiusi in vasche che conterranno 1.000 esemplari;
I polpi verranno costantemente esposti a luce artificiale per aumentare i livelli di riproduzione;
L’uccisione avverrà immergendo gli animali in acqua ghiacciata.
Nel novembre del 2021 la London School of Economics ha analizzato oltre 300 studi scientifici che dimostrano che i polpi sono capaci di provare dolore e piacere. Il Professore Peter Tse, neuroscienziato cognitivo presso la Dartmouth University, ha dichiarato alla BBC che i polpi sono “intelligenti come i gatti” e che “ucciderli con il ghiaccio sarebbe una morte lenta, crudele e non dovrebbe essere permesso”, suggerendo “è più umano ucciderli come fanno molti pescatori, colpendoli alla testa”.
Purtroppo in un'indagine che ho realizzato nel porto di Bari l’ho visto fare, lì addirittura il modo tradizionale per ammazzarli è dandogli un morso in testa, appena pescati. Nei pescherecci si tende a ucciderli subito, perché, anche in questo caso l’ho visto con i miei occhi, i polpi sono abilissimi fuggiaschi, capaci di scovare ogni possibile pertugio per tornare in mare.
Crisi climatica
Il 20 marzo è stata pubblicata la sintesi finale del sesto report di valutazione sul clima realizzato dall’IPCC, il panel intergovernativo sui cambiamenti climatici. Il prossimo rapporto uscirà alla fine di questo decennio e a quel punto non ci saranno più santi che tengano: se la temperatura terrestre si alza di 1,5° rispetto all’era pre-industriale assisteremo a un numero incalcolabile di perdite umane, soprattutto tra le comunità più vulnerabili – quelle che meno hanno contribuito alla crisi climatica –. Questo è l’ultimo avvertimento lanciato ai politici e a tutta la società civile dai migliori scienziati che abbiamo sulla Terra.
“Stiamo camminando quando dovremmo correre”
Hoesung Lee, Presidente dell'IPCC durante la conferenza stampa per il lancio del report.
Come scrive Ferdinando Cotugno sul Domani: “L’aumento globale di temperatura è già +1.1°C, la soglia di sicurezza +1.5°C potrebbe essere superata per la prima volta già nel prossimo decennio, da lì saremo in territorio non mappato, dove i singoli collassi (permafrost, Artico, circolazione atmosferica sull’Atlantico, barriera corallina, criosfera) rischiano di potenziarsi a vicenda. Con gli impegni attuali stiamo viaggiando verso un aumento di +2.8°C entro fine secolo, con le policy attuate oggi potremmo addirittura arrivare a +3.2°C”.
Sebbene il report mostri un quadro nerissimo, propone anche molteplici indicazioni per ridurre le emissioni di gas serra e adattarsi ai cambiamenti climatici, “a patto di agire con la massima urgenza”.
Le azioni da mettere subito in campo sono: incrementare le energie rinnovabili e il trasporto pubblico, efficientare gli edifici, ridurre gli sprechi alimentari e riformare i sistemi alimentari.
Alzi la mano chi ancora non sa che la produzione di carne e derivati è responsabile del 15% delle emissioni di gas serra globali (non metto nemmeno la fonte). Un dato che forse si conosce meno è che il 78% del suolo agricolo mondiale è utilizzato per la produzione di mangimi e l’allevamento. Gli ultimi numeri e poi mi fermo: abbiamo imparato fin da bambinə che l’Amazzonia è il nostro polmone verde, ma non tuttə sanno che il 19% del suo territorio è già stato disboscato e sostituito principalmente con coltivazioni di soia e che il 90% della soia utilizzata in Europa è destinata a nutrire bovini, maiali, polli, branzini, orate e salmoni.
Non ho letto l’intero report dell'IPCC, mi sono limitato al loro comunicato stampa e alla lettura dei pochissimi articoli usciti sui media, ma da nessuna parte ho letto cosa intendessero gli scienziati con “changes in the food sector”. A proposito di questa penuria d’informazione, li comunicatore scientifico Ruggero Rollini, ha scandagliato i principali giornali e telegiornali italiani scoprendo che praticamente tutti hanno snobbato: “uno dei lavori più importanti su uno dei problemi più importanti dei prossimi decenni”.
Tutti i dati sull’impatto ambientale del settore zootecnico mi portano a pensare che questi cambiamenti dovranno passare attraverso politiche che impongano una drastica riduzione del consumo di carne e derivati e se tutto questo non avverrà velocemente, la prossima volta che andrò in Islanda, ci sarà molto meno ice.
Contenuti interessanti
Il 22 marzo c’è stata la giornata dell’acqua, sono usciti tanti contenuti sugli sprechi idrici, questo su Altreconomia è ben fatto.
Qui un altro articolo interessante sull’acqua, o meglio su come la siccità sia collegata all’aumento dei furti di acqua da fiumi, pozzi e canali da parte degli agricoltori italiani.
In Perù sono morti 63.000 uccelli marini e 3.487 leoni marini a causa di un'epidemia di influenza aviaria.
Un video di Will media, girato da una giornalista italiana, nella foresta amazzonica rivela il collegamento tra produzione di carne e disboscamento.
Al Consiglio europeo, l’Italia ha votato contro un accordo sulle modifiche della “direttiva sulle emissioni industriali”, dove per la prima volta erano stati inclusi anche gli allevamenti intensivi. L’accordo è comunque passato.
Un’immagine che mi ha colpito
Per tutta la scorsa settimana nel canale Instagram del World Press Photo, il concorso di fotogiornalismo più importante al mondo, sono stati pubblicati diversi post con gli scatti del fotografo libanese Seb Alex. Seb è impegnato da anni nel documentare lo sfruttamento degli animali. Ricordo che nel 2021 il mio amico Aitor Garmendia vinse il WPP nella categoria, Environment, con un lavoro sugli allevamenti intensivi di maiali spagnoli.
Questa volta è stata dura e sono stato lì, lì per non pubblicare. Ma alla fine mi sono messo d’impegno ed eccola qui. Sono abbastanza contento di me. Prossima settimana si parte per inseguire camion che trasportano agnelli dall’Est Europa all’Italia. Seguimi sulla mia pagina Instagram, pubblicherò ciò che vedremo.
Ottimo lavoro amico!