Gli allevamenti intensivi inquinano meno degli altri
I compromessi dietro alle nostre scelte alimentari
Rieccomi! Ormai questa newsletter esce ogni morte di Papa. Amen. Per me la cosa importante è approfondire in modo approfondito. Un giorno starò più sul pezzo? Chi lo sa, non credo. Kafka ci dice che c’è molta speranza, infinita speranza, ma non per noi. Oggi scrivo del SARProblem, che non è per niente un piccolo problema. Buona lettura.
Animal farm News è divisa in tre parti, oltre a un articolo inedito ci sono due rubriche: Contenuti interessanti e Immagini che mi hanno colpito.
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In italiano trade-off viene tradotto con “compromesso”. Ogni volta che leggo o ascolto questa parola mi appaiono Berlinguer, Aldo Moro e i baffi di Mario Moretti, e da qualche mese fischietto anche Madre di Iosonouncane. In effetti, il compromesso storico incarna bene il concetto di trade-off, ovvero sacrificare qualcosa – una possibile rivoluzione socialista – per ottenere qualcos’altro: “la tenuta democratica” sotto il patrocinio della Democrazia Cristiana. Una fregatura insomma.
Sostituendo un burger di manzo con uno di pollo, si riducono le emissioni di gas serra dell’80% e si ha un consumo del suolo 30 volte inferiore. Tuttavia, per ottenere la stessa quantità di carne è necessario macellare circa 200 polli per ogni bovino.
Gli animali più grandi – mucche e maiali – sono più inquinanti ma producono molta più carne. Gli animali più piccoli – polli e pesci – al contrario, impattano decisamente meno ma occorre ucciderne tantissimi. Per contestualizzare ancora meglio: in Europa il consumo procapite di carne è di circa 80 kg all’anno. Se tutta questa provenisse dai polli, bisognerebbe macellarne circa 40 per persona. Se invece venisse tutta dal manzo, servirebbe meno di un sesto di una mucca: cioè una ogni 6 o 7 anni.
Non solo numeri. La vita di un pollo è probabilmente molto peggiore di quella di una mucca. Quasi tutti i polli nel mondo sono allevati in modo intensivo. Ma di questo ne parlerò alla fine.
Ora che lo visualizzi sembra un concetto scontato, eppure questo trade-off sta influenzando i consumi globali di carne, soprattutto in Occidente, ed è una delle ragioni che, soltanto nell’ultimo anno, hanno portato solo in Italia a un aumento di 20 milioni di polli macellati. Questa fregatura è dibattuta, soprattutto, negli ambienti dell’altruismo efficace, dove è stata sintetizzata con l’acronimo SARP Small Animal Replacement Problem.
L’Effective Altruism è nato all’inizio degli anni 2000 nel giro accademico anglosassone e si fonda attorno al pensiero della filosofia morale di Peter Singer. Con il tempo è diventato un movimento e un approccio che si è dato come obiettivo di: “usare la ragione e le prove per trovare i modi più efficaci per aiutare gli altri”. In pratica, cercano di:
Capire quali problemi nel mondo sono più urgenti e trascurati.
Trovare le soluzioni più efficaci per affrontarli.
Agire di conseguenza, che si tratti di donare soldi, scegliere una carriera o impegnarsi in attività di volontariato.
Come non essere d’accordo, verrebbe da chiedersi, ciononostante l’EA è oggetto di diverse critiche:
Eccessivo razionalismo: approcciare tutto in modo quantitativo attraverso metriche d’impatto rischia di ridurre la complessità dell’etica a numeri.
Trascuratezza delle cause strutturali: si tende a non affrontare le radici politiche ed economiche delle logiche oppressive, concentrandosi invece su soluzioni immediate.
Focus eccessivo sul futuro: l’attenzione al lungo termine rischia di distogliere risorse e priorità da sofferenze e ingiustizie attuali e tangibili. Devo ammettere che questa critica è in opposizione con quella precedente perché cambiare lo status quo richiede necessariamente una visione proiettata nel futuro.
Provenienza altamente elitaria: molti promotori dell’EA provengono da contesti accademici o tecnologici privilegiati del Nord globale. Tutto ciò porta a una concezione del mondo parziale, poco attenta alla diversità culturale o ai bisogni locali.
Scarsa attenzione alla partecipazione dei beneficiari: spesso le cause da sostenere vengono decise senza coinvolgere direttamente le comunità interessate, questo può riprodurre dinamiche di potere e paternalismo.
Queste sono le principali critiche che ho letto. Le condivido tutte, ma essendo alquanto disilluso dai buoni propositi che troppe volte ho visto naufragare nello scontro con la realtà e tradursi in inazione, trovo del senso nella pragmaticità dell’EA.
Torniamo sul pezzo. Molti attivisti per i diritti animali e diverse organizzazioni vicine all’altruismo efficace hanno iniziato a includere il SARP nelle loro strategie, con l’obiettivo di prevenire che questa dinamica si verifichi o, aggiungerei, di trovare una spiegazione a un fenomeno che sembra inevitabile. Un’interpretazione plausibile si basa sul concetto di “moral circle expansion”, secondo cui è probabile che le persone non si preoccuperanno dei polli prima di preoccuparsi delle mucche.
Detto questo, il problema si pone quando una persona passa dal consumo di animali più grandi a quelli più piccoli senza modificare in alcun modo le proprie convinzioni o atteggiamenti nei confronti degli animali. Nel contesto dell’espansione del cerchio morale, però, questo tipo di passaggio è esattamente ciò che potremmo aspettarci: si smette prima di consumare mammiferi, poi uccelli e infine pesci, seguendo grosso modo l’ordine della somiglianza evolutiva e della vicinanza percepita agli esseri umani. Di conseguenza, questa eliminazione progressiva e la relativa sostituzione potrebbero indicare un avanzamento etico. Nel breve termine comporterebbe un aumento del numero di animali consumati, ma nel tempo rappresenterebbe un possibile percorso verso una piena inclusione morale degli animali nella società. Alcune evidenze suggeriscono che proprio questo processo graduale possa essere, da un punto di vista psicologico, il più efficace per portare le persone a eliminare del tutto l’utilizzo di animali, rendendo la fase della sostituzione un passaggio spiacevole ma necessario.
Un altro trade-off, questa volta particolarmente controintuitivo a causa dell’effetto alone – un bias cognitivo per cui la percezione positiva (o negativa) di una caratteristica di una persona, prodotto o situazione influenza il giudizio complessivo su di essa – è quello tra benessere animale e impatto ambientale della carne.
Secondo gli ultimi dati della FAO, a livello globale la produzione di carne e derivati è responsabile del 10-12% delle emissioni totali di gas serra. Nei due report precedenti della stessa FAO – Livestock’s Long Shadow (2006) e Tackling Climate Change Through Livestock (2013) – la percentuale era del 14,5. Un altro studio recente, condotto da un’università inglese di cui non conoscevo l'esistenza, riporta invece una stima del 16,5%. Emissioni enormi, soprattutto se si considera che parliamo di una categoria di alimenti che, secondo le più tradizionali linee guida nutrizionali, dovrebbe coprire solo il 10-15% del fabbisogno calorico. Eppure, se ci limitassimo a misurare l’impatto ambientale della zootecnia in termini di emissioni, finiremmo per ignorare (forse) la conseguenza più evidente: circa un quarto della superficie terrestre è occupato da animali al pascolo o da coltivazioni destinate a produrre mangimi.
Basta. Non credo serva che sprechi altro tempo per elencare le ricadute ambientali del consumo di carne & co.
Altresì concluderò il pezzo con dati che mostrano come gli allevamenti intensivi inquinino molto meno rispetto agli allevamenti estensivi, dove gli animali effettivamente conducono una vita migliore. Per iniziare questa disamina mi servirò dei dati presenti nel libro di Giacomo Moro Mauretto, in arte Entropy for Life, Se pianto un albero posso mangiare una bistecca? (Mondadori 2023). In Europa si producono circa 60 milioni di tonnellate di carne all’anno, contro i 45 milioni dell’intero Sud America, eppure l’uso del suolo è nettamente inferiore: 280 milioni di ettari in UE contro 750 milioni in Sud America. Si utilizza quindi quasi tre volte più terra per produrre molta meno carne, e questo dipende principalmente dal sistema di allevamento. In Europa, gli animali al pascolo occupano meno di 100 milioni di ettari, mentre in Sud America oltre 550. La spiegazione di questa discrepanza sta nel fatto che gli allevamenti europei sono molto più efficienti, perché sono quasi tutti intensivi. Di conseguenza, un chilo di carne bovina prodotto in Europa genera circa quattro volte meno emissioni rispetto a uno sud americano.
Uno dei tanti studi sull’impatto ambientale dei bovini ha rilevato che la carne di manzo proveniente da animali al pascolo, quindi alimentati con erba, ha un’impronta di carbonio superiore del 42% rispetto a quella di bovini nutriti con cereali, quindi stabulati – almeno nell’ultima fase di allevamento. Le mucche alimentate con cereali convertono il mangime in carne in modo molto più efficiente rispetto a quelle allevate al pascolo, infatti, crescono più rapidamente, raggiungono prima il “peso ottimale” e risultano più grandi al termine del ciclo di vita.
Per i maiali vale la stessa logica dei bovini, sui polli mi soffermerò un po’ di più, non molto.
Se rinchiudi i polli in gabbie minuscole, ti servirà meno terra. Se limiti i loro movimenti, consumeranno meno energia. Se somministri ormoni della crescita, ingrasseranno molto più rapidamente. Tutto questo risulta più vantaggioso per il clima, perché consente di utilizzare meno mangime per portarli al peso di macellazione, riducendo il consumo di fertilizzanti, suolo, acqua e altre risorse.
Ma tutto questo rende la vita dei polli uno schifo.
Razze a rapida crescita, la svolta
Nel 2019 la Commissione Europea ha pubblicato il rapporto, Impact of animal breeding on GHG emissions and farm economics, dove si evidenzia che l’impronta di carbonio della produzione di polli è diminuita negli ultimi decenni, quasi esclusivamente grazie ai miglioramenti nel tasso di crescita.
“Un ulteriore aumento del tasso di crescita ha di gran lunga il maggiore potenziale di riduzione delle emissioni di gas serra nella produzione di polli da carne.”
Qui il trade-off in termini di benessere animale è definitivo. Il rapporto suggerisce che uno degli ostacoli principali a ulteriori riduzioni delle emissioni è costituito proprio dalle preoccupazioni dei consumatori per il benessere animale: “Negli ultimi anni si è registrata una crescente domanda di mercato per polli a crescita lenta, percepiti come più rispettosi del benessere animale, in alternativa ai polli a crescita rapida ed efficienti dal punto di vista energetico […] Allevare queste linee a crescita lenta comporterebbe un aumento sostanziale delle emissioni di gas serra e di altri impatti ambientali, a causa del maggiore consumo di mangime dovuto al ciclo di crescita più lungo.”
Fine
A questo punto di certo non ti dirò cosa devi mangiare, per rispettare gli animali e impattare meno sull’ambiente. Non è il mio, ci sono milioni di tonnellate e milioni di ettari di informazioni a riguardo, a me piace scrivere di cause e conseguenze e magari anche a te non piace che ti dicano esplicitamente cosa devi fare. Di certo c’è solo che se vogliamo allevare gli animali con sistemi non intensivi senza ridurre gli attuali consumi, allora ci conviene sperare che Musk costruisca una nuova arca di Noè e cominci ad allevare anche su altri pianeti.
Fine bis
Nel bel libretto E se smettessimo di fingere? (Einaudi 2020), Jonathan Franzen crede che l’apocalisse climatica non si possa più fermare, per cui per affrontarla al meglio bisogna ammettere che non possiamo più prevenirla. C’è un passaggio che penso si addica a questo pezzo: “Moltissimi esseri umani, dovranno accettare senza ribellarsi un aumento delle tasse e un forte ridimensionamento del tenore di vita a cui sono abituati. Dovranno accettare che il cambiamento climatico è reale e avere fede nelle misure estreme adottate per combatterlo. Non potranno rifiutare come false le notizie che non gradiscono. Dovranno mettere da parte nazionalismo, classismo e odio razziale. Dovranno fare sacrifici per lontane nazioni in pericolo e lontane generazioni future. Dovranno essere costantemente terrorizzati dalle estati più calde e dai disastri naturali più frequenti, anziché semplicemente abituarcisi. Ogni giorno, invece di pensare alla colazione, dovranno pensare alla morte.”
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Un’immagine che mi ha colpito
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